Premessa
Nel corso del Novecento – e, in particolare, dalla seconda metà del secolo – la metafora dell'alveare, da sempre comune nel discorso politico e morale, è andata assumendo una sempre più marcata connotazione negativa. Fino ad allora, l'alveare, lo sciame, l'ape erano stati utilizzati, tendenzialmente, come esempi positivi della società, dello stato, del cittadino. A questa immagine positiva si accostano, via via, una serie di immagini negative. Anche in ambito architettonico, del resto, all'alveare come costruzione ideale e all'ape come architetto naturale veniva gradualmente accostata, quando non sostituita, l'immagine negativa dei grandi “alveari” dei quartieri dormitorio: monotoni, affollati e alienanti.
Nel corso del Novecento – e, in particolare, dalla seconda metà del secolo – la metafora dell'alveare, da sempre comune nel discorso politico e morale, è andata assumendo una sempre più marcata connotazione negativa. Fino ad allora, l'alveare, lo sciame, l'ape erano stati utilizzati, tendenzialmente, come esempi positivi della società, dello stato, del cittadino. A questa immagine positiva si accostano, via via, una serie di immagini negative. Anche in ambito architettonico, del resto, all'alveare come costruzione ideale e all'ape come architetto naturale veniva gradualmente accostata, quando non sostituita, l'immagine negativa dei grandi “alveari” dei quartieri dormitorio: monotoni, affollati e alienanti.
Due elementi hanno – in primo luogo –
favorito questa reinterpretazione. Da un lato, una minore propensione
– in società multietiche e post-tradizionali – a discutere sulla
“natura” della società, ossia a distinguere tra società più o
meno naturali. L'argomento naturalistico – secondo cui qualcosa è
valutato positivamente per il solo fatto di essere “naturale” -
ha perso efficacia, per lo meno in ambito politico e sociale, fino ad
essere considerato come un argomento di per sé fallace. Ha perso
efficacia – curiosamente – nello stesso momento in cui la
guadagnava in altri ambiti (basta pensare all'idea del “naturale”
come “positivo” diffusa dai movimenti ecologisti e new age).
Dall'altro lato, in contesti culturali che condividono un punto di
vista individualistico sull'uomo e sulla società (sempre più
chiamata a favorire, e non a ostacolare, lo sviluppo autonomo
dell'individuo, così come lo stato è chiamato a riconoscere e
promuovere i diritti individuali), l'ape operaia che sacrifica la
propria individualità al bene della comunità ha perso, fatalmente,
la connotazione di modello positivo.
È possibile – a titolo di esempio –
prendere in considerazione alcuni usi recenti, apparsi nella
pubblicistica e in testi di teoria politica, della metafora. È
interessante notare – ad esempio – come l'uso dell'alveare come
modello positivo riappare, negli ultimi anni, in testi che
intervengono, in maniera diversa, nel dibattito contemporaneo sul
“neoliberismo” o sul ruolo del “capitalismo finanziario”.
1) L'ape e la locusta: il capitalista
creatore e lo speculatore predatore
In un libro pubblicato nel 2013 e
intitolato The Locust and the Bee, Geoff Mulgan ricorre
all'allegoria dell'ape, usandola in senso sostanzialmente positivo.
Il libro è stato pubblicato in Italia con il titolo: L'ape e la locusta. Il futuro del capitalismo tra creatori e predatori
(Codice 2013). L'idea di fondo, molto semplificata, è che
esisterebbe un capitalismo “buono” – creatore – e uno
“cattivo” – predatore. Quest'ultimo sarebbe da identificare con
la speculazione, considerata come sterile perché priva di ricadute
positive sull'intera società.
L'ape come allegoria del
capitalismo “produttivo” viene ricondotta, da Mulgan, direttamente a Bernard de Mandeville e alla Favola delle api,
accostata alla “mano invisibile” di Adam Smith. Vediamo i due
passi in cui questo richiamo è reso esplicito:
a)
«all'inizio del Settecento, Bernard de Mandeville aveva
scritto una delle grandi opere che sono alla base del capitalismo
moderno: La favola delle api.
Da allora l'ape è la metafora del lato migliore del capitalismo: è
produttiva, tranquilla e produce benefici per molti. Coopera
tantissimo, avvalendosi di un'intelligenza collettiva che, come i
migliori mercati, supera nettamente la somma delle intelligenze
individuali. L'aspetto predatorio del capitalismo è invece
simboleggiato dalla locusta» [p. 19]
b) «La
favola delle api
di Bernard de Mandeville conferma la tesi: un mercato funziona perché
agiamo senza riflettere, come pecore di un gregge, come automi».
[p. 110]
Questi
due passi, dunque, sembrano attribuire a Mandeville due tesi:
a)
Il capitalismo “migliore” è produttivo e produce benefici per
molti, cooperando e avvalendosi di un'intelligenza collettiva che
supera la somma delle intelligenze individuali.
b)
Il mercato funziona perché agiamo senza riflettere.
Ricollegare
queste due tesi all'opera di Mandeville è, nella migliore delle
ipotesi, frutto di una lettura imprecisa della Favola
delle api.
Quanto alla tesi a), Mandeville non era interessato a dividere una
parte “migliore” e una “peggiore” del capitalismo. Del resto,
non lo preoccupava neppure il “capitalismo” in senso proprio. La
sua tesi era piuttosto che tanto le “passioni” quanto i “vizi”
concorrevano – muovendo l'economia di una società – al
benessere collettivo. Ragion per cui, tra quei “vizi privati” che
generano “pubblici benefici”, Mandeville avrebbe probabilmente incluso
anche quelli che muovono gli “sterili” speculatori di cui parla
Mulgan, ossia le locuste. I quali tanto sterili, dal punto di vista
di Mandeville, non sono.
Anche
la tesi b), che tende a fare di Mandeville un semplice precursore del
laissez faire
non è facilmente difendibile. Mandeville in realtà ripete in
diversi passaggi della sua opera che solo l'abilità di un politico
avveduto (e conoscitore delle autentiche dinamiche della società)
può trasformare i “vizi privati” in “pubblici benefici”. Non
pensava, evidentemente, a una società di “automi” le cui azioni
si mettevano spontaneamente in equilibrio.
Ciò
non significa che Mulgan abbia scelto male la sua allegoria.
Tuttavia, più che a Mandeville, avrebbe forse potuto guardare a
Diderot o a du Pont de Nemours. Il primo, nella sua lettera a Caterina
II a proposito di un nuovo codice per la Russia, suggerisce di non
dare dei “calci” all'alveare e di lasciare “lavorare le api in
pace”, eliminando tutti gli impedimenti alla libera circolazione e
al libero scambio. L'alveare e le api sono qui, propriamente,
l'immagine di un organismo armonioso che deve essere lasciato libero
di raggiungere il proprio equilibrio [Diderot,
Observations
sur le Nakaz].
Quanto al “fisiocratico” du Pont de Nemours, egli usa le api
piuttosto come immagine di un “governo naturale” dell'economia,
notando come esse si sottopongano “di comune accordo e nel loro
stesso interesse” all'organizzazione superiore dell'alveare
[du Pont de Nemours, Physiocratie].
L'insistenza
sul ruolo di un abile politico per trasformare i vizi privati in
pubblici benefici rende quindi discutibile l'uso di Mandeville come
antesignano del laissez
faire. Tuttavia, Albert O. Hirschman ha notato come Adam Smith abbia compiuto un passo avanti rispetto a Mandeville
traducendo il paradosso della Favola in un modello economico più
accettabile e persuasivo. Un passo avanti compiuto sostituendo
termini come “passione” e “vizio” con i più accettabili
“vantaggio” o “interesse” [Hirschman, The Passions and the
Interests].
Anche questo passaggio – se fosse stato chiarito da Mulgan –
avrebbe reso più comprensibile l'uso della metafora.
In
conclusione: Mulgan ha certamente ragione quando nota che l'ape come
metafora di un capitalismo produttivo, cooperativo e dotato di una
intelligenza collettiva appartiene alla tradizione del discorso
politico-economico europeo. Tuttavia, Mandeville costituisce
piuttosto un'eccezione che la regola, avendo usato la stessa
allegoria – provocatoriamente – per descrivere una società
disarmonica al proprio interno ma, se ben governata, prospera nel suo
complesso.
(Continua)
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