sabato 23 luglio 2016

Tre usi recenti della metafora dell'ape e dell'alveare – Parte prima


Premessa
Nel corso del Novecento – e, in particolare, dalla seconda metà del secolo – la metafora dell'alveare, da sempre comune nel discorso politico e morale, è andata assumendo una sempre più marcata connotazione negativa. Fino ad allora, l'alveare, lo sciame, l'ape erano stati utilizzati, tendenzialmente, come esempi positivi della società, dello stato, del cittadino. A questa immagine positiva si accostano, via via, una serie di immagini negative. Anche in ambito architettonico, del resto, all'alveare come costruzione ideale e all'ape come architetto naturale veniva gradualmente accostata, quando non sostituita, l'immagine negativa dei grandi “alveari” dei quartieri dormitorio: monotoni, affollati e alienanti.
Due elementi hanno – in primo luogo – favorito questa reinterpretazione. Da un lato, una minore propensione – in società multietiche e post-tradizionali – a discutere sulla “natura” della società, ossia a distinguere tra società più o meno naturali. L'argomento naturalistico – secondo cui qualcosa è valutato positivamente per il solo fatto di essere “naturale” - ha perso efficacia, per lo meno in ambito politico e sociale, fino ad essere considerato come un argomento di per sé fallace. Ha perso efficacia – curiosamente – nello stesso momento in cui la guadagnava in altri ambiti (basta pensare all'idea del “naturale” come “positivo” diffusa dai movimenti ecologisti e new age). Dall'altro lato, in contesti culturali che condividono un punto di vista individualistico sull'uomo e sulla società (sempre più chiamata a favorire, e non a ostacolare, lo sviluppo autonomo dell'individuo, così come lo stato è chiamato a riconoscere e promuovere i diritti individuali), l'ape operaia che sacrifica la propria individualità al bene della comunità ha perso, fatalmente, la connotazione di modello positivo.
È possibile – a titolo di esempio – prendere in considerazione alcuni usi recenti, apparsi nella pubblicistica e in testi di teoria politica, della metafora. È interessante notare – ad esempio – come l'uso dell'alveare come modello positivo riappare, negli ultimi anni, in testi che intervengono, in maniera diversa, nel dibattito contemporaneo sul “neoliberismo” o sul ruolo del “capitalismo finanziario”.


1) L'ape e la locusta: il capitalista creatore e lo speculatore predatore
In un libro pubblicato nel 2013 e intitolato The Locust and the Bee, Geoff Mulgan ricorre all'allegoria dell'ape, usandola in senso sostanzialmente positivo. Il libro è stato pubblicato in Italia con il titolo: L'ape e la locusta. Il futuro del capitalismo tra creatori e predatori (Codice 2013). L'idea di fondo, molto semplificata, è che esisterebbe un capitalismo “buono” – creatore – e uno “cattivo” – predatore. Quest'ultimo sarebbe da identificare con la speculazione, considerata come sterile perché priva di ricadute positive sull'intera società.
L'ape come allegoria del capitalismo “produttivo” viene ricondotta, da Mulgan, direttamente a Bernard de Mandeville e alla Favola delle api, accostata alla “mano invisibile” di Adam Smith. Vediamo i due passi in cui questo richiamo è reso esplicito:
a) «all'inizio del Settecento, Bernard de Mandeville aveva scritto una delle grandi opere che sono alla base del capitalismo moderno: La favola delle api. Da allora l'ape è la metafora del lato migliore del capitalismo: è produttiva, tranquilla e produce benefici per molti. Coopera tantissimo, avvalendosi di un'intelligenza collettiva che, come i migliori mercati, supera nettamente la somma delle intelligenze individuali. L'aspetto predatorio del capitalismo è invece simboleggiato dalla locusta» [p. 19]
b) «La favola delle api di Bernard de Mandeville conferma la tesi: un mercato funziona perché agiamo senza riflettere, come pecore di un gregge, come automi». [p. 110]
Questi due passi, dunque, sembrano attribuire a Mandeville due tesi:
a) Il capitalismo “migliore” è produttivo e produce benefici per molti, cooperando e avvalendosi di un'intelligenza collettiva che supera la somma delle intelligenze individuali.
b) Il mercato funziona perché agiamo senza riflettere.
Ricollegare queste due tesi all'opera di Mandeville è, nella migliore delle ipotesi, frutto di una lettura imprecisa della Favola delle api. Quanto alla tesi a), Mandeville non era interessato a dividere una parte “migliore” e una “peggiore” del capitalismo. Del resto, non lo preoccupava neppure il “capitalismo” in senso proprio. La sua tesi era piuttosto che tanto le “passioni” quanto i “vizi” concorrevano – muovendo l'economia di una società – al benessere collettivo. Ragion per cui, tra quei “vizi privati” che generano “pubblici benefici”, Mandeville avrebbe probabilmente incluso anche quelli che muovono gli “sterili” speculatori di cui parla Mulgan, ossia le locuste. I quali tanto sterili, dal punto di vista di Mandeville, non sono.
Anche la tesi b), che tende a fare di Mandeville un semplice precursore del laissez faire non è facilmente difendibile. Mandeville in realtà ripete in diversi passaggi della sua opera che solo l'abilità di un politico avveduto (e conoscitore delle autentiche dinamiche della società) può trasformare i “vizi privati” in “pubblici benefici”. Non pensava, evidentemente, a una società di “automi” le cui azioni si mettevano spontaneamente in equilibrio.
Ciò non significa che Mulgan abbia scelto male la sua allegoria. Tuttavia, più che a Mandeville, avrebbe forse potuto guardare a Diderot o a du Pont de Nemours. Il primo, nella sua lettera a Caterina II a proposito di un nuovo codice per la Russia, suggerisce di non dare dei “calci” all'alveare e di lasciare “lavorare le api in pace”, eliminando tutti gli impedimenti alla libera circolazione e al libero scambio. L'alveare e le api sono qui, propriamente, l'immagine di un organismo armonioso che deve essere lasciato libero di raggiungere il proprio equilibrio [Diderot, Observations sur le Nakaz]. Quanto al “fisiocratico” du Pont de Nemours, egli usa le api piuttosto come immagine di un “governo naturale” dell'economia, notando come esse si sottopongano “di comune accordo e nel loro stesso interesse” all'organizzazione superiore dell'alveare [du Pont de Nemours, Physiocratie].
L'insistenza sul ruolo di un abile politico per trasformare i vizi privati in pubblici benefici rende quindi discutibile l'uso di Mandeville come antesignano del laissez faire. Tuttavia, Albert O. Hirschman ha notato come Adam Smith abbia compiuto un passo avanti rispetto a Mandeville traducendo il paradosso della Favola in un modello economico più accettabile e persuasivo. Un passo avanti compiuto sostituendo termini come “passione” e “vizio” con i più accettabili “vantaggio” o “interesse” [Hirschman, The Passions and the Interests]. Anche questo passaggio – se fosse stato chiarito da Mulgan – avrebbe reso più comprensibile l'uso della metafora.
In conclusione: Mulgan ha certamente ragione quando nota che l'ape come metafora di un capitalismo produttivo, cooperativo e dotato di una intelligenza collettiva appartiene alla tradizione del discorso politico-economico europeo. Tuttavia, Mandeville costituisce piuttosto un'eccezione che la regola, avendo usato la stessa allegoria – provocatoriamente – per descrivere una società disarmonica al proprio interno ma, se ben governata, prospera nel suo complesso.
(Continua)

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