mercoledì 19 novembre 2014

La Stracciarola di Palazzo Madama


Il video di Paola Taverna contestata a Tor Sapienza dovrebbe essere intitolato, semplicemente, “La nemesi”. Lo spettacolo della povera senatrice cui vengono ritorti contro gli stessi cliché e lo stesso linguaggio che il M5S usa di solito contro la “Casta” è un autentico caso di giustizia compensativa. I topoi della retorica antipolitica del Movimento ci sono tutti: il politico intrallazzatore sotto mentite spoglie (“er Movimento 5 Stelle che è, a Caritas?”), che si fa vedere solo quando non ha altro da fare (“t'hanno dato cinque ggiorni de sospenzione, se no cor cazzo che stavi qua!”) o solo quando gli conviene (“fino a lunedì 'ndo stavi?”) e con il solo scopo di raccattare qualche voto (“nun volemo accattonaggio de voti!”), fino all'inevitabile riferimento polemico al lauto stipendio (i “tremila euro”). E dall'altra parte, la povera Taverna (nomen omen), una delle più quotate urlatrici di Palazzo Madama (“a ggente nun c'ha 'r pane e voi state a ffà e riforme gostituzzionali!”), costretta, contrappasso dei contrappassi, ad additare minacciosamente una contestatrice dicendole “Te, devi abbassa' a voce”, per poi tentare il riscatto con l'arroganza tipica del Movimento: “Io nun so' politica, so' a ggente der Quarticciolo” – versione ruspante e degna dell'onorevole Angelina del più ripulito ma altrettanto arrogante “noi siamo la società civile” di Roberta Lombardi, vertice assoluto del populismo e del delirio di onnipotenza dei parlamentari del M5S.


Sarà stato il riferimento al Quarticciolo, sarà stato il tono gagliardamente popolaresco dello scambio dialettico, ma il video mi ha ricordato un memorabile passaggio di “Ladro lui, ladra lei”, una commedia di Luigi Zampa del 1958. Nella scena, la padrona dell'atelier di moda Marialele, interpretata da Marisa Merlini (doppiata in realtà da Lydia Simoneschi), passa dall'italiano forbito, con birignao in francese à la page, al più puro romanesco, quando il suo vecchio amico d'infanzia Cencio (Alberto Sordi) la riconosce come “a fija de Zaira a Stracciarola”. A Cencio, che le chiede di "togliergli una curiosità" e di dirgli con che lana è tessuto un vestito dell'atelier d'alta moda, Marialele, con sguardo d'intesa, confessa che si tratta proprio di "lana mortaccina", cioè di "lana delle pecore morte di malattia": lana di ultima scelta, insomma.
A differenza del personaggio interpretato dalla Merlini, alla Taverna non fa difetto la sincerità (né, probabilmente, l'onestà): lei, l'italiano forbito, manco sa dove sta di casa. Viene però da pensarla in un ideale lieto fine di questa tragicomica debacle, mentre a riflettori spenti, spogliati i ruoli istituzionali che la vita pubblica ci costringe tutti a recitare, finalmente s'intende col suo contestatore: “a Paola, ma lévame 'na curiosità... ma questo, che è?”. E lei: “A Ce', ma che domande me fai: questo è accattonaggio de voti!”.

martedì 3 giugno 2014

I vizi e le virtù dell'alveare


«Le api sono state per noi quel che sono le nuvole: ciascuno vi ha visto quel che vi voleva vedere». Così il (politicamente) volatile Michel de Cubières riassunse in una frase la travagliata storia politica dell'alveare. Arruolate sotto tutte le bandiere, le api hanno servito nei secoli la propaganda di ogni schieramento. Piacevano, ovviamente, ai monarchici, che vedevano nei docili e ordinati imenotteri, laboriosi e naturalmente rispettosi della gerarchia, la migliore immagine del suddito ideale dell'ancien régime. Proprio per questo, quando, nel 1792, il Chevalier de Cubières, allora più opportunamente noto come Citoyen Cubières, dava alle stampe il suo poema sul “governo felice” delle api, anche l'ordine stabilito della “monarchia femminile” (come l'aveva definita il naturalista inglese Charles Butler, nel 1609) era travolto dall'impeto dei venti rivoluzionari. Furono infine i naturalisti dell'Ècole Normale ad assumersi l'incarico di detronizzare la regina delle api, facendo dell'alveare una repubblica. Se ne discusse nel corso di storia naturale del professor Daubenton, nell'anno III. Non è vero, sosteneva Daubenton, che l'alveare è retto da un monarca: quella che erroneamente si chiamava “re” o “regina” delle api, confondendone il ruolo non meno che il sesso, altro non è che una “ape madre”: una specie di “fattrice”, buona solo per deporre le uova. Nell'arnia repubblicana, è lo sciame la fonte della sovranità. Frugali, egualitarie e pronte a difendere il loro alveare, le api erano ora diventate l'immagine ideale del cittadino vagheggiato sui banchi dell'Assemblea Nazionale. Non sono forse loro a selezionare la regina, nutrendola di pappa reale con quella che poteva ben sembrare una versione alimentare del suffragio universale, e addirittura a liberarsene, quando non serve più e occorre sostituirla con una nuova? Le api non solo non erano monarchiche, ma all'occorrenza addirittura regicide.
La restaurazione proverà a cancellare il ricordo delle api giacobine: ancora nel 1819, Joseph De Maistre recuperava, nel suo libro sul Papa, l'analogia tra l'alveare e la monarchia assoluta. Provate a togliere la regina dall'alveare, chiedeva polemicamente il pensatore savoiardo: avrete tante api quante ne vorrete, ma non avrete mai uno sciame. Ossia: tagliate pure la testa ai re, e non vi sarà più nessuna nazione: solo un popolo disperso e senza guida. Nonostante gli sforzi di De Maistre, e quelli di Carlo X, delle vecchie monarchie assolute non era rimasta che l'allegoria. Alla fine, anche le api dovettero adeguarsi all'industrializzazione. Organizzate dall'apicoltura moderna in arnie “razionali”, che permettono di raccogliere il miele senza distruggere lo sciame, le api si prepararono per la loro ultima reincarnazione: le perfette operaie delle comunità industriali progettate dai socialisti utopisti. L'arnia come falansterio: un'organizzazione razionale e cooperativa, guidata da una regina la cui unica preoccupazione è il benessere dello sciame.

giovedì 27 febbraio 2014

Disciplina e democrazia

Grillo e tutti gli aderenti al M5S sono perfettamente legittimati a fare quello che hanno fatto, ovvero ad espellere i quattro senatori dal loro gruppo parlamentare. Non c'è assolutamente nulla di strano, né di insolito: non è la prima volta che succede, e probabilmente non sarà l'ultima. Se hanno deciso di darsi un regolamento interno, e delle procedure di votazione per giudicare delle infrazioni, tutto quel che è accaduto è semplicemente logico e conseguente. Anche sulla questione del “vincolo di mandato”, enunciato nell'articolo 67 della nostra costituzione, c'è poco da dire, dal momento che, ovviamente, i quattro senatori non decadono da parlamentari e possono tranquillamente continuare a rappresentare la nazione in parlamento, sempre che non si vogliano dimettere autonomamente (ma poi le dimissioni devono essere approvate...).