domenica 9 dicembre 2012

Antiquariato giuridico 2 - due temi del garantismo penale


Alessandro Magnasco
"Scene dell'inquisizione" (part.)
Riprendere libri vecchi può essere, spesso, molto istruttivo. Prendiamo le Lezioni sul Processo Penale di Carnelutti. Essendo la riforma del codice di procedura penale una delle poche riforme in ambito giuridico andate in porto nel nostro paese (o, almeno, una delle poche di una certa rilevanza), uno può immaginare di aver tra le mani un pezzo d’antiquariato. Solo le parti più generali, quelle definitorie del “processo penale” in sé, quelle insomma che non entrano nei particolari delle regole del processo penale o dell'ordinamento giudiziario italiani, dovrebbero resistere al tempo. E, per quanto tali pagine non siano poche e siano sicuramente interessanti, costituiscono pur sempre una minoranza nei quattro volumi, editi tra il 1946 e il 1949, che raccolgono le lezioni del Carnelutti. Le lezioni stesse, precedenti alla data di edizione, appartengono a un'altra era della nostra storia istituzionale, un'era nella quale, tanto per dire, il procuratore della repubblica si chiamava, ancora, procuratore del re. Perfino lo stile è pieno di toscanismi e di termini desueti, e il retroterra filosofico accentuatamente spiritualista. Insomma, tutto cospira in favore della tesi di una lettura antiquaria. Così quando si arriva al paragrafo sul processo accusatorio e si legge che esso «consiste […] non tanto nella presenza dell'accusa, quanto nella mediazione dell'accusa e della difesa tra giudice e imputato» [p. 158], si ha l'impressione di essere arrivati al redde rationem. Il processo penale accusatorio, affermava Carnelutti, non è ancora «un risultato ormai raggiunto», ma è invece una tendenza, un «passaggio […] lento e faticoso». Forti del nuovo codice di procedura, abbiamo gli elementi per affermare che il passaggio si è compiuto, per quanto lentamente e faticosamente.


Il processo accusatorio e il ruolo del pubblico ministero
La parte sul processo accusatorio delle Lezioni di Carnelutti si conclude lamentando lo «stadio arretrato» del processo italiano, dato dalla «contrapposizione del pubblico ministero come parte (strumentale) pubblica al difensore come parte privata» [p. 158]. Nella sezione successiva, intitolata, appunto, «Il pubblico ministero», Carnelutti spiega e sviluppa questa idea. A partire da una osservazione terminologica. La disparità tra accusatore e difensore, afferma Carnelutti, sta anzitutto nel nome che il primo continua a portare: pubblico ministero. Un termine generico, che non fa riferimento esplicito alla funzione accusatoria e lo accomuna al giudice, “pubblico ministro” tanto quanto l'accusatore. Altrettanto improprio il nome che designa il magistrato investito della funzione di pubblico ministero: procuratore della Repubblica (allora, appunto, procuratore del Re). Un nome che «incarna l'idea che il pubblico ministero faccia valere gli interessi della società (giuridicamente organizzata) nel processo penale e perciò la rappresenti» [p. 159]. Ma la società non è parte del processo penale, poiché «in essa s'incontrano le due posizioni del danneggiato e del danneggiante», dal che discende che lo Stato «non ha maggiore interesse all'accusa che alla difesa», per cui (questo il punto) potrebbe essere tanto “pubblico” l'accusatore quanto il difensore. E anche il dire che il pubblico ministero “rappresenta” o “tutela” la legge è proferire frasi “vacue”, perché se lo si considera come parte (come già faceva il vecchio codice di procedura penale), allora è una parte in quanto contrapposto al difensore, cioè in quanto, semplicemente, “accusatore”.
Questioni di lana caprina, talmudismi, si dirà. Questioni di nomi, che non sono che tracce di una passata tradizione, e ormai stanno a indicare funzioni profondamente modificate. Modificate, appunto, già dal vecchio codice, che includeva il pubblico ministero tra le parti, e ancor più dal nuovo, che sancisce la parità tra accusa e difesa. Tanto più che lo stesso Carnelutti, che lamenta che al difensore sia negato il carattere pubblico che è attribuito all'accusatore, riconosce però che vi sono buone ragioni per cui quest'ultimo, e non il primo, sia un "impiegato giudiziario", il cui reclutamento deve avvenire per altre vie: perché è a quest'ultimo che è affidata la pretesa penale, perché il complesso delle sue funzioni processuali richiede una organizzazione più stabile, eccetera. E allora dove sta il punto? Sta nel fatto che, una volta riconosciuto ciò, Carnelutti aggiunge, subito: «altra è la questione se l'impiegato, al quale è affidata l'accusa, debba esser compreso in quella stessa gerarchia, alla quale appartiene il giudice». Perché è proprio questa «identità della posizione amministrativa del giudice e del pubblico ministero, la quale trova la sua espressione non solo nella parità dei gradi ma persino nella promiscuità della carriera onde un impiegato giudiziario può essere trasferito dalla funzione di giudice a quella di accusatore o viceversa» che si da il «carattere dell'ordinamento italiano»: un «cordone ombelicale tra i giudice e il pubblico ministero in Italia» che accentua la disparità tra accusatore e difensore e costituisce «uno dei vizi fondamentali del sistema».

Confessione e tortura
Insieme a quello delle separazione delle carriere, un tema caro al garantismo nostrano contemporaneo è quello dell'inserimento nel nostro ordinamento del “reato di tortura”. Un altro tema che riaffiora nelle Lezioni.
Carnelutti affronta il tema della tortura, non casualmente, subito dopo quello della confessione, definita insieme “prova regina” e “principio dell'espiazione”. Ed è proprio sulla base di questa duplice dimensione che affronta la questione. Sbaglia, afferma Carnelutti, chi vede nella tortura (la cui abolizione segna “un trionfo della civiltà”) soltanto un mezzo per conoscere la verità [p. 236]. Con la tortura il giudice non cercava «la convinzione di sé, quanto la convinzione dell'imputato». Cercava la confessione anche e anzitutto come espiazione. L'errore stava allora, qui, nel affidare la «funzione di penitenza» alla «sofferenza fisica, anziché alla sofferenza spirituale». Mentre «il pentimento è un atto di libertà, anzi la più genuina manifestazione della libertà”, ragion per cui “è assurdo cercar di provocarlo con la coercizione». Eppure questo errore, l'errore di ritenere possibile provocare il pentimento con la sofferenza fisica, per quanto grave è ancora meno grave dell'errore che si compie oggi (è un oggi del 1946, ma come vedremo si dilata al 2012), cercando la confessione con "mezzi coercitivi" al solo scopo di ottenere una prova. Perché questo errore, oltre ad andare oltre la lettera della legge poiché il codice sotto questo punto (afferma Carnelutti nel 1946) è «lastricato di buone intenzioni», perverte, prima che la concezione stessa della “prova” in uno stato di diritto, il ruolo dell'imputato come il più privilegiato tra i testimoni, e che come tale andrebbe trattato, salvaguardando “la libertà della persona”. E invece, «dall'errore delle pratiche coercitive nel trattamento dell'imputato non ci siamo, purtroppo, ancora purgati». Una frase scritta nel 1946, affermando (va notato) che tali pratiche sopravviverebbero «nelle fasi preliminari del processo penale, affidate all'opera della polizia giudiziaria». Anche il valore di questa osservazione resta intatto, e si potrebbe agevolmente, visto l'accento sulla "coercizione", ampliarne la portata ben oltre l'attività della polizia giudiziaria.

Nessun commento:

Posta un commento