Su La Repubblica di
venerdì 24 agosto, Franca D’Agostini, recensendo due interessanti saggi (Logica di Graham Priest e Sweet reason di James Henle, Jay Garfield e Thomas Tymoczcko),
ha delineato una rapida ma chiarissima introduzione all’applicazione della
logica al discorso pubblico. Di quest’attività intellettuale, Franca D’Agostini
dà un’immagine tanto intrigante quanto, a mio parere, problematica. Il punto è
ciò che si potrebbe chiamare “concezione pedagogica” dell’applicazione della
logica al discorso pubblico. La D’Agostini riconosce che la più importante
“resistenza” al potenziamento dell’insegnamento della logica (inteso come
propedeutico a un “risanamento istantaneo del dibattito pubblico”), sta nel
fatto che la logica “così come oggi viene normalmente insegnata” non sarebbe in
grado di svolgere il “delicato e complesso compito di edificazione del
linguaggio comune”. Occorrerebbe, quindi, “riformare e riconsiderare”
l’insegnamento della logica riallacciandolo con l’uso comune del linguaggio e
con lo studio dell’argomentazione.
La questione sembra abbastanza chiara già dalle prime righe. Tra i motivi
che si avanzano per spiegare la presenza di “clamorose e strategiche
insensatezze” nel discorso pubblico, la D’Agostini annovera “il classico it’s
democracy, baby!”, che non è
tanto (come sembrerebbe) un punto di vista realista sul modo in cui funzionano
le democrazie moderne, ma l’affermazione che “se prevale il peggio, è perché è
un peggio persuasivo, accattivante, affascinante, e non vale lamentarsi”. Tuttavia,
secondo l’autrice, la questione sarebbe, in realtà, un’altra, e cioè che “la
mancanza di timidezza logica (inconsapevole o strategica) di alcuni discorsi
pubblici ha lo scopo di rivolgersi a qualcuno”, ed è “solo supponendo in questo
qualcuno una correlativa formidabile ignoranza, o distrazione, o disaffezione
alle questioni logiche, che si può far passare argomenti insensati o
zoppicanti”. Quindi per evitare che gli oratori proferiscano “clamorose e
strategiche insensatezze” e che gli uditori se ne lascino abbindolare
occorrerebbe colmare l’ignoranza circa le “questioni logiche”. Ma è davvero
così? Vediamo.
In via preliminare, sembra esserci qui una qualche confusione circa il
termine “strategico”. Se “la mancanza di timidezza logica” si spiega con il
presupposto dell’ignoranza “correlativa” dell’uditorio, questa “mancanza di
timidezza logica” non può essere, anche, “inconsapevole”: al contrario, non c’è
nulla di più strategico. Se il punto è che il discorso pubblico si rivolge
sempre a un uditorio, sfruttare, a fini persuasivi, le sue “manchevolezze”
logiche è una tattica del tutto consapevole e tra le più studiate: è quel che
insegna la retorica. Eppure in un certo senso, questa “mancanza di timidezza
logica” può essere anche “inconsapevole”, dal momento che oratore e uditorio,
spesso, parlano la stessa lingua. E qui arriviamo alle “clamorose e strategiche
insensatezze”, che se paiono clamorose a mente fredda in un’aula universitaria,
talvolta lo sembrano meno nel corso di un comizio. Mancanza di preparazione
logica dei politici e di chi li ascolta? Probabilmente, ma non solo. In primo
luogo, una insensatezza strategica può anche non essere un’insensatezza
clamorosa, almeno in determinati contesti. E questo perché le insensatezze
clamorose (quando sono davvero clamorose) raramente sono strategiche, cioè
persuasivamente efficaci. Ma anche perché bisogna intendersi su che cosa
significa “insensatezza”, cioè “mancanza di senso”.
Prendiamo i due esempi con cui l’autrice inizia il suo articolo. Il primo è
un caso da manuale di tu quoque: un politico di destra ha rubato, ma, si dice, ha rubato anche l’altro di
sinistra. Qui si suggerisce, chiosa l’autrice, che “due ladri sono meno di
uno”. Il secondo è un titolo di un sito web: “il governo aumenta l’Iva per non
alzare le tasse”. Ma come, si chiede l’autrice, l’Iva non è forse una tassa?
Ecco dunque due clamorose insensatezze. Eppure, ci sono persone che le prendono
per buone, e a volte sono dei fior di laureati, magari persino in matematica o
in filosofia. Il punto è che più che “clamorose insensatezze” queste sono più
che altro semplificazioni, e le semplificazioni, spesso grossolane, sono una
caratteristica del discorso pubblico. Una caratteristica fisiologica, non
patologica. Prendiamo il primo caso: la fallacia del tu quoque è evidente, ma può essere che dietro si celi un
discorso più complesso (che sia l’oratore che l’uditore condividono tacitamente
o sottintendono). Il problema, tanto per dire, del sistema di finanziamento dei
partiti, o il tema della “questione morale” e dunque del “da che pulpito viene
la predica”, della “superiorità morale della sinistra”, e così via. Tutti
argomenti discutibilissimi, certamente, ma che spiegano come la fallacia possa
nascondere, in realtà, un discorso molto più sfaccettato. Lo stesso vale per il
secondo caso: non v’è chi non veda l’errore. Ma si deve anche considerare che
l’Iva è un’imposta indiretta, e il termine “tasse” è spesso usato, appunto
nell’“uso comune” del linguaggio, per indicare le imposte dirette (è una “sineddoche”,
figura retorica che indica la parte con il tutto: es. “America” per “Stati
Uniti”). Vista così, l’insensatezza è meno clamorosa, e rimanda anche al fatto
che i titolisti hanno poco spazio, devono catturare l’attenzione, e scrivere
“il governo aumenta le imposte indirette per non aumentare le imposte dirette”
non è la stessa cosa (inoltre, mi permetto di aggiungere, spesso il titolista
dà per scontato che molti lettori medi possano cogliere la necessaria ancorché
grossolana semplificazione, senza l’aiuto del logico).
Uno degli aspetti sottolineati dagli antichi retori (e, tra di essi, da
Aristotele), è che un discorso pubblico (o deliberativo) deve essere adeguato
al suo uditorio e che in quest’ambito un discorso ineccepibile dal punto di
vista logico-formale può essere inutile o addirittura controproducente, perché
anche un uditorio di laureati in filosofia potrebbe annoiarsi a sentire un
comizio elettorale in cui fossero sciorinati tutti i passaggi dei sillogismi
che, infallibilmente, condurrebbero dalle premesse alle conclusioni. Perciò si
semplifica, omettendo passaggi, premesse, dando per scontate definizioni
(spesso basate su semplificazioni grossolane, ma pratiche) che si sanno
condivise dagli ascoltatori.
Dunque, qual è il ruolo della logica? Georg H. von Wright, iniziatore della
logica deontica, ovvero della logica del discorso normativo (come il discorso
etico o il discorso giuridico) aveva sottolineato come le leggi della logica
non mirino a far sì che la gente pensi correttamente, così come le leggi dello
Stato dovrebbero indurre determinati comportamenti, ma possono solo fornire
uno standard per giudicare se la gente pensi correttamente oppure no. Possono
solo valutare ex post,
insomma, gli argomenti utilizzati. È già molto. Ovviamente, insegnare un po’ di
logica nelle scuole è sempre positivo, ma c’è da chiedersi se, per fornire una
preparazione logica “di base”, non sarebbe già sufficiente potenziare
l’insegnamento delle altre materie scientifiche (che su di essa si basano), e
in particolare della matematica. È davvero necessario ricorrere alle logiche
“non classiche”? Probabilmente no. In primo luogo perché, al di là delle
apparenze, la logica della quale si fa uso (quando se ne fa uso) nel discorso
pubblico è alquanto elementare. In secondo luogo, perché il problema non è
(solo) quello di potenziare gli strumenti analitici sul piano logico, né, sia
chiaro, quello di insegnare a tutti la retorica classica. Il problema è
coniugare una maggiore attenzione al ragionamento, diciamo così, “formale”, con
una maggiore consapevolezza del contesto in cui si argomenta e del contenuto
delle argomentazioni.
Franca D’Agostini sembra porsi nella tradizione di quello
che è stato chiamato “il sogno di Leibniz”, ovvero l’idea che ogni discorso è
formalizzabile e se ci sono problemi basta mettersi intorno a un tavolo e
calcolare. Ovviamente, la posizione della D’Agostini è molto meno ingenua, ma
il sottofondo sembra essere sempre quello. Nel discorso pubblico, però, le cose
sembrano essere un po’ più complesse. Lo sono proprio a causa delle necessarie
“semplificazioni” di cui ho parlato, ma anche perché qui la forma non va
disgiunta dal contenuto e anzi il secondo ha, per lo più, la preminenza sulla
prima. Opinioni condivise, luoghi comuni, pregiudizi, concetti radicati in una
tradizione culturale o politica sono la base di un discorso pubblico, e le
argomentazioni non si possono costruire prescindendone e limitandosi alle
caratteristiche formali. Questo è ancor più vero quando si prendono in
considerazione le contemporanee democrazie di massa, dove l’“opinione pubblica”
(ovvero un pubblico vasto, differenziato e con diverso grado di istruzione) è
tanto importante. In tal caso davvero si può dire a Franca D’Agostini: «it’s
democracy, baby!»
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