Grillo e tutti gli aderenti al M5S sono perfettamente
legittimati a fare quello che hanno fatto, ovvero ad espellere i
quattro senatori dal loro gruppo parlamentare. Non c'è assolutamente
nulla di strano, né di insolito: non è la prima volta che succede,
e probabilmente non sarà l'ultima. Se hanno deciso di darsi un
regolamento interno, e delle procedure di votazione per giudicare
delle infrazioni, tutto quel che è accaduto è semplicemente logico
e conseguente. Anche sulla questione del “vincolo di mandato”,
enunciato nell'articolo 67 della nostra costituzione, c'è poco da
dire, dal momento che, ovviamente, i quattro senatori non decadono da
parlamentari e possono tranquillamente continuare a rappresentare la
nazione in parlamento, sempre che non si vogliano dimettere
autonomamente (ma poi le dimissioni devono essere approvate...).
Quindi, non c'è nessun problema? Un problema c'è,
ma è solo di coerenza tra quel che si dice e quel che si fa. Può
interessare solo gli elettori del M5S, sempre che questo tipo di
sottigliezze interessi loro. Il problema di coerenza sta tutto nel
fatto che il M5S, il MoVimento della democrazia diretta, che non è
un partito, che non ha strutture, che non ha iscritti e tutto il
resto della retorica spontaneista che conosciamo a memoria, si
comporta come un partito degno dell'aurea stagione della
partitocrazia repubblicana. Anzi, pure peggio. Mi spiego.
In rete è possibile leggere un ottimo articolo
di Paolo Emilio Tavani, uscito nel 1963 su Civitas,
che meriterebbe di essere esaminato con cura. Ma per quel che ci
riguarda, basta soffermarsi sul paragrafo che riguarda l'articolo 67.
Taviani, in parole povere, vi difende il ruolo dei partiti (dei
grandi partiti di massa: burocratici, organizzati, disciplinati) nel
panorama politico italiano. Sostiene, in particolare, che le pratiche
parlamentari dei partiti della “prima repubblica” non
contrariavano la lettera dell'articolo 67, ma anzi che nella
sostanza, e dato il contesto politico e sociale dell'Italia di
allora, la rispettavano.
Che cosa dice
l'articolo 67? Che i parlamentari esercitano le loro funzioni “senza
vincolo di mandato”. Taviani, che di fatto sta difendendo le
pratiche parlamentari democristiane, intende dimostrare che una
(forte) disciplina di gruppo non smentisce questo principio.
L'argomentazione dovrebbe interessare il M5S, anche se bisogna notare
che Taviani precisa che “sarebbero in netto contrasto con la citata
norma costituzionale eventuali espedienti per aggirare il divieto di
vincolo del mandato, quali le dimissioni con data in bianco”.
Comunque, il punto è, ripeto, che la libertà dal vincolo di
mandato, per Taviani può benissimo coesistere con una disciplina
parlamentare rigida. Perché? Perché il partito è uno “strumento
necessario nella vita dello Stato” che “non può esaurire la sua
funzione nel momento elettorale” e “attraverso la scelta dei
candidati”. Il partito, dice Taviani, non è più un mero comitato
elettorale, come ai tempi dello Stato liberale. E perciò è “logico
e conseguente che, anche dopo le elezioni, il programma del partito,
interpretato e precisato dagli organi del partito a ciò
statutariamente preposti, giochi un ruolo primario negli orientamenti
del parlamentare, che è stato eletto anche in virtù dei suoi meriti
personali, ma in maggior misura per il suo collegamento con una
determinata impostazione ideologica e programmatica”. Al netto
dell'italiano forbito, di un certo gergo giuridico, di
una terminologia politica d'antan,
sono parole che gli esponenti del M5S potrebbero sottoscrivere. Sono
parole, sottolineo ancora una volta, pronunciate nel 1963 da un
dirigente di primo piano della DC per giustificare, legittimamente,
pratiche di pura e semplice disciplina di partito.
Ho detto però che quel
che fa il M5S è, in un certo senso, pure peggio. In che senso,
allora? Taviani qui parla di “programma di partito, interpretato e
precisato dagli organi del partito a ciò statutariamente preposti”.
Con cosa ci confrontiamo, noi, oggi? Quando nel 1969 la “Quinta
Commissione” espulse il gruppo del Manifesto, decisione che valse
ad Alessandro Natta la qualifica di repressore, il Partito Comunista
Italiano contava più di un milione e mezzo di iscritti. I quali,
ancorché con passaggi burocratici che di certo diluivano il loro
tasso di partecipazione, potevano votare per eleggere quegli “organi
del partito” di cui parla Taviani nel suo articolo. Nelle politiche
del 1968, il PCI era stato votato da circa otto milioni e mezzo di
elettori. Più o meno lo stesso numero di elettori che, alle ultime
politiche, ha votato M5S. La “consultazione online” che ha
sancito l'espulsione dei quattro senatori ha visto la partecipazione
di 43.368 attivisti. Nelle parole di Grillo (via Twitter): “29.883
hanno votato per ratificare la delibera di espulsione. 13.485 hanno
votato contro”. Il M5S ha l'elettorato di un grande partito di
massa, e sfiducia i suoi eletti con consultazioni che hanno i numeri
di un partito dell'epoca del suffragio censitario. L'obiezione, a
questo punto, è: però le decisioni sono prese comunque da un numero
ben più elevato di persone, rispetto ai pochi membri di un comitato
centrale o di una segreteria. Bisognerebbe fare bene i conti con
l'intera struttura dirigente, locale e centrale, di un partito come
poteva essere il PCI nel '68, cioè quando grosso modo prendeva gli
stessi voti del M5S, ma l'obiezione è seria e va presa in
considerazione. Va anche preso in considerazione il fatto, però, che
quei partiti di massa avevano sezioni, che votavano organi
provinciali e regionali, che partecipavano a congressi, che
eleggevano dirigenze nazionali, che indirizzavano a loro volta
l'azione dei gruppi parlamentari. Che cosa abbiamo, qui, ora? Grillo
Giuseppe detto Beppe, da Sant'Ilario (GE), che scrive email e
pubblica video sul suo blog consigliando di ratificare l'espulsione.
Tutto perfettamente legittimo, ripeto. Si sappia però che i corifei
della democrazia diretta si comportano niente più e niente meno che
come un partito della prima repubblica, con l'aggravante che non
hanno neppure l'ombra delle strutture, in qualche modo democratiche,
che quei partiti, pur con tutti i loro limiti, avevano. L'obiezione
finale, a questo punto, è del tipo “ci stiamo lavorando”. Siamo
lontani dall'ideale, ma siamo in cammino, stiamo affinando le nostre
pratiche di partecipazione, eccetera eccetera. Benissimo. Ma perché,
nel frattempo, non scegliere il meno peggio piuttosto che il peggio?
Perché non darsi le normali strutture di un partito? La risposta più
semplice ha motivazioni propagandistiche: bisogna dimostrare di
essere diversi. Anche quando non lo si è – a meno che non si creda
che farci vedere una riunione in streaming sia un cambiamento
sostanziale. La risposta più complessa ha motivazioni più profonde.
E sta tutta nel fatto che queste pratiche, di presunta democrazia
diretta, sono più manipolatorie persino di quelle che poteva mettere
in atto un “comitato centrale” o una “segreteria” di un
vecchio partito di massa.
Nessun commento:
Posta un commento